Grazie a questa elaborazione parallela, la sincronia mente-corpo si esprime con
l’esistenza di rappresentazioni dell’esperienza in forme sia mentali sia corporee, tra
loro analogamente funzionali. Per fare un esempio, la continuità analogica tra mente e
corpo nell’esperienza psichica dell’assertività è determinata da specifiche attivazioni
senso-motorie e da complessi meccanismi neuro-fisiologici. Tra questi, l’incremento di
emissione di adrenalina rappresenta
uno
dei componenti in gioco, senza il quale, però,
l’esperienza soggettiva dell’assertività, semplicemente, non è possibile.
Non è però sempre vero il contrario: l’emissione di adrenalina non garantisce la
consapevolezza di un’eventuale motivazione assertiva. Ed è qui che le cose si
complicano. Mente e corpo possono organizzare l’esperienza in modo dissonante,
generandone molteplici rappresentazioni, a volte tra loro non congrue. Per cause
diverse, non sempre patologiche, l’attribuzione verbale di un significato può essere
parzialmente o del tutto discordante con gli schemi emotivi e le loro attivazioni
somato-viscerali. Lo schema emotivo, inoltre, non sempre arriva a coscienza, e per
questa ragione il discorso verbale, seppur riferito alla medesima esperienza, può non
rappresentare lo stato affetttivo in essere.
Diverse possono essere le ragioni che impediscono il libero accesso
dell’emozione alla consapevolezza. Potrebbe semplicemente trattarsi di una ragione
“contestuale”: non è il momento di essere assertivi, ad esempio. Monitoriamo
velocemente e implicitamente l’opportunità dei nostri atti, e ci alleggeriamo d’inutili
fardelli (come i nostri pensieri consci a volte sanno essere) quando stimiamo di non
avere alcun vantaggio nel prenderli in considerazione. Certo, il pericolo è che
potremmo stimare male, ma l’organizzazione del nostro agire richiede non più che una
manciata di millesimi di secondo, e siamo normalmente attrezzati per correre questo
rischio. Oppure, al contrario e al peggio, potrebbe trattarsi di un condizionamento in
base all’esperienza pregressa che interessa l’organizzazione psichica, e che può
implicare l’incapsulamento somatico di un’esperienza traumatica, o un processo
difensivo nel senso del conflitto, oppure il riferimento interno a modelli relazionali
appresi che non validano le reazioni assertive. Inoltre, il grado d’inaccessibilità alla
consapevolezza dell’esperienza affettiva disturbante può andare dalla semplice
repressione percettiva, fino alla più radicale dissociazione degli stati affettivi dalla
rappresentazione psichica di sé.
Ferenczi concepisce l’impasse come una frattura tra l’intelletto e il pensiero elaborato
da una parte, e il corpo e le emozioni dall’altra - idea ripresa da Aron e Harris, come
Anna ci rammenta –, e crede che se qualcosa non sta scorrendo nella mente del
paziente e nella terapia, non sta scorrendo nemmeno tra la sua mente e il suo corpo.
Questa prospettiva è molto vicina a quella da cui Anna ha guardato la sofferenza di
Mario. L’impasse, per Ferenczi (1932), rappresenta una dissociazione tra la mente e il
corpo, l’interruzione della loro funzionale continuità, e l’arenarsi della capacità
trasformativa del paziente - Mario sperimenta ciò come “impantanamento”. Le
contratture e la rigidità corporee, forniscono ad Anna una versione del Sé di Mario ben
più mortifera di quella narrata dallo sguardo e dalla parola vivaci e vitali. L’uomo che
ha di fronte è ostacolato alla vita anche nelle più semplici imprese.
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